Producer: Alberto Borgogno
Testo: Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa (1871-1950)
Musica: Alberto Borgogno
Canto: Franco Poggiali Berlinghieri
Esecuzione: Artestudio53 (con chitarra acustica, pianoforte e marimba; violini, viola, violoncello e contrabbasso; flauto, oboe e fagotto; tromba, trombone e basso tuba; basso elettrico e percussioni; in Sol maggiore e La maggiore)
In più d’una poesia Trilussa si presenta col suo io autobiografico, ossia comunica storie, riflessioni e ricordi di cui assume piena responsabilità parlando in prima persona: è proprio l’io del poeta-autore, non di qualche personaggio chiamato a recitare un monologo per l’occasione, come avviene in altri componimenti; un io che mette da parte il pallino della satira per parlare con sincerità dei propri sentimenti e del proprio mondo interiore. Se fossi un docente ancora in servizio e insegnassi la Letteratura Italiana (anziché essere un docente in pensione ed aver insegnato per più di 40 anni la Letteratura Greca), inviterei qualche studente a raccogliere e studiare queste poesie, magari per mettere insieme una tesina. «Cammera ammobbijata» dovrebbe sicuramente entrare nel quaderno, insieme con altri pezzi come «La Maschera», «La tradita», «L’orloggio cor cuccù», «Sogni», «Libbro muto», «La strada mia», «Soffitto», «Stella cadente», «Felicità»: tutti componimenti in cui l’afflato lirico e il desiderio del poeta di entrare in autentico contatto col lettore non sono in alcun modo velati o compressi da qualche intenzione satirica. Ebbene, sarei curioso di vedere se alla fine del lavoro questi discepoli si sentirebbero di confermare un famoso giudizio, ben visto da non pochi studiosi, di Pier Paolo Pasolini: «Non c’è in tutto Trilussa un moto “religioso”, un cedimento affettivo che riveli un fondo sentimentale»; e un altro, sempre di Pasolini: «Trilussa è un verseggiatore che ama soprattutto i suoi versi, indipendentemente dai contenuti, a cui il suo scetticismo lo aveva diseducato». Parole ingiuste nei confronti di un poeta che fa trasparire i sentimenti più vari e graduati nei confronti dei suoi simili proprio perché i suoi simili non gli sono indifferenti («homo sum…»: universalismo classico, laico ma non anti-religioso); artista capace di mettere a nudo i difetti degli uomini senza aggredire i malcapitati peccatori, anzi trasformando quegli infimi gaglioffi e sbalestrati furbastri nei memorabili protagonisti delle sue storie (presentati anche nelle classiche vesti inventate da Esopo); tanto inorridito dalla violenza e dalla guerra quanto dolce e gentile negli scorci, nei diminutivi e nel disegno delle umili figurette del suo popolo; infinitamente triste per la giustizia e la verità che non ci sono adesso e non ci saranno mai, ma che lui continuerà ad immaginare e a sognare.
Faccio seguire il testo della mia canzone: sono tutte parole di Trilussa, 9 delle 12 sestine di cui è composta la «Cammera ammobbijata».
CAMMERA AMMOBBIJATA
Quanno ne li momenti d’allegria
ripenso a quarche buggera passata,
me ne rivado co’ la fantasia
in quela cammeretta ammobbijata
dove quann’ero giovane aspettai
la bella donna che nun viddi mai.
La sora Pia me disse: «Signorino,
se volesse passà verso le sei
a Via dell’Orso, dieci, mezzanino,
je manno un tipo come piace a lei:
un bocconcino propio da poeta…»
E se baciò la punta de le deta.
«Io» disse «n’ho vedute de regazze:
ma co’ quell’occhi, mai! So’ color celo, (1)
che quanno li tiè bassi, le pennazze
je fanno un’ombra blu, che pare un velo.
Eppoi che bocca! Fra le tante cose
ce se diverte a mozzicà le rose.
Ecco la chiave. Vada pure franco,
troverà scritto su la porta mia:
“Pia Sbudinfioni, cucitrice in bianco”.
Entri e l’aspetti; eppoi, quanno va via,
me rimette la chiave ner cantone
dedietro ar busto de Napoleone».
Nun ve dirò le smanie de quer giorno!
Appena entrato ne la cammeretta
smicciai le cose che ci avevo intorno:
el letto, er commodino, la toletta
capii che m’aspettaveno, ma senza
damme neppuro un po’ de confidenza.
Napoleone, ne l’atteggiamento
de chi vede er destino da lontano,
fissava rassegnato un paravento
che invece riparava un lavamano,
e faceva una smorfia co’ la bocca
quasi volesse di’: sotto a chi tocca!
Co’ la speranza de trovà un sorriso
me guardai ne lo specchio, ma er cristallo,
spaccato in mezzo, me sformava er viso:
me vedevo li denti de cavallo,
er naso sfranto e l’occhi stralunati
da nun conosce più li connotati.
«Va’ via, ch’è mejo», me diceva er core,
che in certi casi nun se sbaja mai,
«se a diciott’anni paghi già l’amore,
quanno n’avrai cinquanta, che farai?
T’illudi forse che la gioja nasca
così, a la ceca, come casca casca?» (1)
Guardai che or’era: ce mancava poco.
Un po’ de sole entrava ne lo specchio
come una freccia e lo mannava a foco.
Pensai: «Ce tornerò quanno so’ vecchio…»,
e rimisi la chiave ner cantone
dedietro ar busto de Napoleone.
(1) Trilussa scrive CELO e CECA non CIELO e CIECA.
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